Nell’ambito del Progetto d’Istituto Scrittori Ribelli, nasce questo racconto
dal sapore amaro, ma nello stesso momento vincente. È la storia di una donna che per la prima
volta ha saputo dire “NO” ad un finto matrimonio riparatore, per coprire una violenza.
Questo il racconto immaginato da una nostra alunna.
La storia di Franca
Viola
«No» urlai con tutta la forza della mia
voce. «No» urlai con la forza di uno sparo.
Lui mi guardò con
sgomento e rise.
«Non puoi rifiutare- mi disse- questo matrimonio è l'unica
possibilità per te e tu lo sai»
Lo sapevo benissimo.
Avevo 17 anni quando
vivevo in una piccola casa dalle pareti di un rosa spento, ricoperte da folte e
invadenti erbacce che, anche se mio padre si ostinava a tagliare, queste
ricrescevano sempre più velocemente e forti. Per il resto era una piccola casa
con attorno un piccolo pezzo di terra che usavamo per coltivare qualche fila di
ortaggi nella stagione estiva.
La mia casa mi piaceva
e mi piaceva anche la mia vita da ragazzina qual ero: in paese quando passavo
tutti si giravano, addirittura i più anziani mi dicevano che sarei diventata
una donna forte, bella e dal cuore tenero; invece, un bel numero di ragazzi,
considerando il piccolo luogo in cui vivevo, cercavano di lusingarmi , sorridendomi
per strada o, ad esempio, facendomi passare avanti in una fila.
Il figlio del mio
vicino di casa, Alfonso, mi lasciava sempre un fior di sambuco sul davanzale
della finestra che affacciava nella mia stanza; anche Antonio cercò di
affascinarmi con dei fiori, mentre camminavo per strada con Andrea, mio
fratello più piccolo, urlò il mio nome facendomi voltare e trovare un'enorme
mazzo di rose bianche e rosse nelle sue mani; poi, c'è Alberto, il ragazzino
dalle gote e i capelli color carota che veniva a scuola nella mia stessa classe
e ad ogni occasione cercava di chiedermi di far insieme il tratto da lì a casa,
dato che abitava pochi isolati più in là. Addirittura, Filippo, il figlio di un
uomo molto conosciuto, rispettato e temuto nel quartiere, cercava di affascinarmi
e il suo modo di fare fu quello che mi rimase più impresso, poiché nella sua
mente perversa una donna si conquista con l'arroganza, per cui, a suo dire, tutto
gli è dovuto e il “no” non esiste nella sua lingua.
Conoscevo Filippo già
da qualche mese, ma si era accorto di me qualche giorno prima che mi chiedesse
di fare due passi con lui nel cortile intorno alla scuola; dovetti dire di no, dato che, se non fossi
tornata in orario a casa, mio padre avrebbe fatto una delle sue sfuriate; così
rifiutai cercando di essere il più cordiale possibile, ma lui dopo aver
imbronciato il labbro in segno di superiorità mi diede uno schiaffo dritto
dritto in faccia. Da quel giorno né io e né lui provammo a rivolgerci la parola
o a incrociare i nostri sguardi.
Oltre questo episodio,
la mia vita andava a gonfie vele, ero e mi sentivo rispettata e considerata nel
mio piccolo. Non adoravo stare al centro dell'attenzione e tuttora non è una
cosa che mi appartiene, ma qualche complimento o anche solo un gesto,
migliorano sempre la giornata, no? Precisamente, quattro giorni dopo il mio
17esimo compleanno sentii dei colpi alla porta di casa, non poteva essere né un
animale e né un ramo, visto che di lì non ne passavano molti e mio padre, come
suo solito, il giorno prima aveva ritagliato le erbacce e potato tutte le
piante del giardino. Mi avvicinai alla porta per riuscire a capire chi fosse il
mittente, ma come risposta ricevetti solo colpi tirati con il doppio della
forza di quelli iniziali.
Il rumore della mano
che sbatteva sul legno riesco ancora a sentirlo nella mia testa, sentendo anche
tutta l'arroganza e la sicurezza che emanava. Quando aprii la porta mi ritrovai
di fronte la faccia di Filippo, illuminata da un accennato sorriso di sfida e
dall'odio che rimbalzava dai suoi occhi ai miei. Non ebbi nemmeno il tempo di
pronunciare qualsiasi parola, che mi tirò un altro schiaffo con la forza tale
di farmi cadere sul pavimento. Di cosa successe dopo non ho memoria. Mi
svegliai di colpo, sentendo una forte pressione alla testa, ancora dolente dalla
caduta causata dallo schiaffo. Ero in una stanza buia, dove l'unico fascio di
luce si trovava nell'angolo a destra, grazie a un piccolo foro nel legno che
permetteva di vedere ciò che si trovava intorno a quelle quattro mura. Appena
lo vidi corsi verso quella luce e questo mi fece realizzare della catena
arrugginita che mi stringeva la caviglia e mi faceva sentire il ferro gelido
sulla pelle.
Tutti nella propria
vita sentono il freddo sulla pelle, quello che ti fa venire la pelle d'oca, che
ti fa perdere la sensibilità delle dita, che ti ghiaccia il naso; ma quel
freddo che sentivo in quel momento era
diverso, non era quello che percepiamo tutte le mattine d'inverno, era più freddo,
riusciva a entrarmi dentro e a farmi sentire il ghiaccio anche lì. Mi raggomitolai
in un lato della stanza, accanto alla catena che mi legava al muro, e aspettai
anche se non sapevo cosa. Continuai ad aspettare per 5 giorni e 5 notti, mentre
mi chiedevo se Alfonso, Alberto, Andrea, Antonio si erano già dimenticati di
me, se qualcuno si era posto dov' ero, perché non mi vedevano camminare nel
paese, ma più pensavo e più non trovavo una risposta. Si aprì la porta di
fronte a me e d'istinto i miei occhi si chiusero per la luce che veniva da fuori,
che appariva come delle lame ad essi.
Entrò Filippo, mi tirò un altro schiaffo, forse per assicurarsi se davvero non
avessi le forze di difendermi o magari, solo per divertimento. Iniziò a toccare
il mio corpo e continuò così per un tempo che a me risultava infinito. A ogni
suo sospiro di piacere io sentivo sempre più il freddo dentro le ossa, nella
mente; sembrava che tutto si stesse ghiacciando.
Quello non era un
uomo, anche il termine maschio attribuito a lui è un insulto per chi lo è; quello
che mi aveva lasciato senza forze sul pavimento sporco, con dei lividi sulle
gambe e i graffi sulla schiena, non era un uomo, no, era solo un animale. Anche
la mia testa aveva cessato di muoversi, era rimasta immobile dopo quegli
istanti, come il mio corpo, non davano più risposta.
«Sposiamoci».
«No». Tutta la forza che credevo di aver perso si era
ripresentata in quelle due lettere. Non importa quello che ha detto dopo, io ho
voluto e saputo dire di no e il calore che era scomparso per lasciare posto al
freddo, stava rinascendo.
Federica
I D