giovedì 12 aprile 2018

LA STORIA DI FRANCA VIOLA


Nell’ambito del Progetto d’Istituto Scrittori Ribelli, nasce questo racconto dal sapore amaro, ma nello stesso momento vincente. È la storia di una donna che per la prima volta ha saputo dire “NO” ad un finto matrimonio riparatore, per coprire una violenza. Questo il racconto immaginato da una nostra alunna.
La storia di Franca Viola
«No» urlai con tutta la forza della mia voce. «No» urlai con la forza di uno sparo.
Lui mi guardò con sgomento e rise.
«Non puoi rifiutare- mi disse- questo matrimonio è l'unica possibilità per te e tu lo sai»
Lo sapevo benissimo.

Avevo 17 anni quando vivevo in una piccola casa dalle pareti di un rosa spento, ricoperte da folte e invadenti erbacce che, anche se mio padre si ostinava a tagliare, queste ricrescevano sempre più velocemente e forti. Per il resto era una piccola casa con attorno un piccolo pezzo di terra che usavamo per coltivare qualche fila di ortaggi nella stagione estiva.
La mia casa mi piaceva e mi piaceva anche la mia vita da ragazzina qual ero: in paese quando passavo tutti si giravano, addirittura i più anziani mi dicevano che sarei diventata una donna forte, bella e dal cuore tenero; invece, un bel numero di ragazzi, considerando il piccolo luogo in cui vivevo, cercavano di lusingarmi , sorridendomi per strada o, ad esempio, facendomi passare avanti in una fila.
Il figlio del mio vicino di casa, Alfonso, mi lasciava sempre un fior di sambuco sul davanzale della finestra che affacciava nella mia stanza; anche Antonio cercò di affascinarmi con dei fiori, mentre camminavo per strada con Andrea, mio fratello più piccolo, urlò il mio nome facendomi voltare e trovare un'enorme mazzo di rose bianche e rosse nelle sue mani; poi, c'è Alberto, il ragazzino dalle gote e i capelli color carota che veniva a scuola nella mia stessa classe e ad ogni occasione cercava di chiedermi di far insieme il tratto da lì a casa, dato che abitava pochi isolati più in là. Addirittura, Filippo, il figlio di un uomo molto conosciuto, rispettato e temuto nel quartiere, cercava di affascinarmi e il suo modo di fare fu quello che mi rimase più impresso, poiché nella sua mente perversa una donna si conquista con l'arroganza, per cui, a suo dire, tutto gli è dovuto e il “no” non esiste nella sua lingua.
Conoscevo Filippo già da qualche mese, ma si era accorto di me qualche giorno prima che mi chiedesse di fare due passi con lui nel cortile intorno alla scuola;  dovetti dire di no, dato che, se non fossi tornata in orario a casa, mio padre avrebbe fatto una delle sue sfuriate; così rifiutai cercando di essere il più cordiale possibile, ma lui dopo aver imbronciato il labbro in segno di superiorità mi diede uno schiaffo dritto dritto in faccia. Da quel giorno né io e né lui provammo a rivolgerci la parola o a incrociare i nostri sguardi.
Oltre questo episodio, la mia vita andava a gonfie vele, ero e mi sentivo rispettata e considerata nel mio piccolo. Non adoravo stare al centro dell'attenzione e tuttora non è una cosa che mi appartiene, ma qualche complimento o anche solo un gesto, migliorano sempre la giornata, no? Precisamente, quattro giorni dopo il mio 17esimo compleanno sentii dei colpi alla porta di casa, non poteva essere né un animale e né un ramo, visto che di lì non ne passavano molti e mio padre, come suo solito, il giorno prima aveva ritagliato le erbacce e potato tutte le piante del giardino. Mi avvicinai alla porta per riuscire a capire chi fosse il mittente, ma come risposta ricevetti solo colpi tirati con il doppio della forza di quelli iniziali.
Il rumore della mano che sbatteva sul legno riesco ancora a sentirlo nella mia testa, sentendo anche tutta l'arroganza e la sicurezza che emanava. Quando aprii la porta mi ritrovai di fronte la faccia di Filippo, illuminata da un accennato sorriso di sfida e dall'odio che rimbalzava dai suoi occhi ai miei. Non ebbi nemmeno il tempo di pronunciare qualsiasi parola, che mi tirò un altro schiaffo con la forza tale di farmi cadere sul pavimento. Di cosa successe dopo non ho memoria. Mi svegliai di colpo, sentendo una forte pressione alla testa, ancora dolente dalla caduta causata dallo schiaffo. Ero in una stanza buia, dove l'unico fascio di luce si trovava nell'angolo a destra, grazie a un piccolo foro nel legno che permetteva di vedere ciò che si trovava intorno a quelle quattro mura. Appena lo vidi corsi verso quella luce e questo mi fece realizzare della catena arrugginita che mi stringeva la caviglia e mi faceva sentire il ferro gelido sulla pelle.
Tutti nella propria vita sentono il freddo sulla pelle, quello che ti fa venire la pelle d'oca, che ti fa perdere la sensibilità delle dita, che ti ghiaccia il naso; ma quel freddo che sentivo  in quel momento era diverso, non era quello che percepiamo tutte le mattine d'inverno, era più freddo, riusciva a entrarmi dentro e a farmi sentire il ghiaccio anche lì. Mi raggomitolai in un lato della stanza, accanto alla catena che mi legava al muro, e aspettai anche se non sapevo cosa. Continuai ad aspettare per 5 giorni e 5 notti, mentre mi chiedevo se Alfonso, Alberto, Andrea, Antonio si erano già dimenticati di me, se qualcuno si era posto dov' ero, perché non mi vedevano camminare nel paese, ma più pensavo e più non trovavo una risposta. Si aprì la porta di fronte a me e d'istinto i miei occhi si chiusero per la luce che veniva da fuori,  che appariva come delle lame ad essi. Entrò Filippo, mi tirò un altro schiaffo, forse per assicurarsi se davvero non avessi le forze di difendermi o magari, solo per divertimento. Iniziò a toccare il mio corpo e continuò così per un tempo che a me risultava infinito. A ogni suo sospiro di piacere io sentivo sempre più il freddo dentro le ossa, nella mente; sembrava che tutto si stesse ghiacciando.
Quello non era un uomo, anche il termine maschio attribuito a lui è un insulto per chi lo è; quello che mi aveva lasciato senza forze sul pavimento sporco, con dei lividi sulle gambe e i graffi sulla schiena, non era un uomo, no, era solo un animale. Anche la mia testa aveva cessato di muoversi, era rimasta immobile dopo quegli istanti, come il mio corpo, non davano più risposta.
«Sposiamoci».
«No». Tutta la forza che credevo di aver perso si era ripresentata in quelle due lettere. Non importa quello che ha detto dopo, io ho voluto e saputo dire di no e il calore che era scomparso per lasciare posto al freddo, stava rinascendo.

Federica I D

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